Bergamo, 4 Gennaio 2013 | di Rocco Artifoni
Sistemi elettorali e poteri democratici
Anzitutto bisogna chiarire un punto, che pure dovrebbe essere chiarissimo, ma di fatto non lo è. Quando si vota per il Parlamento – italiano o europeo – si eleggono i rappresentanti del popolo che hanno il compito di predisporre le leggi. Non si vota per eleggere il governo ma i parlamentari. Non si sceglie il potere esecutivo ma quello legislativo. Con questa premessa mi pare ovvio che il Parlamento migliore – almeno in teoria – dovrebbe essere quello che rispecchia meglio la volontà popolare. Quindi, sarebbe meglio utilizzare sistemi elettorali proporzionali, poiché mantengono un corretto rapporto tra volontà dei votanti ed eletti.
Noi italiani abbiamo una Carta Costituzionale che – ovviamente – tutela le minoranze. Per questa ragione ad esempio l’art. 57 della Costituzione prevede che ogni Regione abbia un numero minimo di seggi senatoriali, anche se non spetterebbero sulla base di un mero calcolo proporzionale in relazione agli abitanti o ai votanti. Nelle elezioni per il Parlamento Europeo questo meccanismo è ancora più enfatizzato. Ad esempio a Malta, che ha una popolazione inferiore al mezzo milione di cittadini, spettano comunque 6 seggi europei, mentre la Germania, che ha una popolazione 200 volte più numerosa, ha diritto a 96 seggi (cioè soltanto 16 volte quelli di Malta). In altre parole l’Unione Europea adotta il principio della “proporzionalità regressiva”, teso a favorire la rappresentanza dei più piccoli, sfavorendo di conseguenza i più potenti.
Gustavo Zagrebelski – già presidente della Corte Costituzionale – nel suo testo “Imparare la democrazia” scrive: «In democrazia nessuna deliberazione ha a che vedere con la ragione o il torto, la verità o l’errore. Non esiste nessuna ragione per sostenere, in generale, che i più vedano meglio, siano più vicini alla verità dei meno. L’essenza della politica democratica, sta di solito non nella maggioranza, ma nelle minoranze che fanno loro il motto “non seguire la maggioranza nel compiere il male”.»
Da quanto detto fin qui si potrebbe trarre la conclusione che un buon sistema elettorale in una prospettiva di democrazia costituzionale e di convivenza civile, dovrebbe tendere a dare spazio alle minoranze di ogni genere: territoriali, linguistiche, culturali, sociali e politiche. In altre parole – se proprio si volesse dare un “premio” di rappresentanza – questo dovrebbe essere assegnato ai più deboli e ai più piccoli. Cioè esattamente il contrario di quello che si è fatto negli ultimi 20 anni in Italia, nei quali sono state alzate le soglie di sbarramento per essere eletti sia al Parlamento italiano che a quello europeo e sono stati introdotti sistemi maggioritari o premi di maggioranza per i gruppi politici più votati.
Le motivazioni che di solito vengono addotte per giustificare gli sbarramenti e i premi di maggioranza consistono nell’evitare la proliferazione dei partiti e nel cercare di costruire un sistema politico bipolare. A parte che negli ultimi due decenni il numero dei partiti in Italia non è diminuito e che il quadro politico italiano è sempre meno bipolare (ma non casualmente non è bipolare in Germania, in Francia, in Gran Bretagna, ecc.), viene da chiedersi perché nessuno si assuma l’onere di spiegare perché cinque partiti sarebbero meglio di sei o sette e perché due coalizioni sarebbero meglio di tre o quattro. In un sistema democratico non sarebbe invece più opportuno e più interessante disporre di più alternative sia come partiti che come coalizioni? Il cittadino elettore, avendo più possibilità, dovrebbe sentirsi più vicino ai rappresentanti che ha scelto.
In realtà quello dei partiti e delle coalizioni è un falso problema. Se “ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato” (art. 67 Costituzione), i partiti dovrebbero essere lo strumento per proporre ai cittadini elettori i migliori candidati possibili, che una volta eletti dovrebbero prendere le proprie decisioni in coscienza e non dipendere più dai partiti o dalle coalizioni d’origine. Insomma le forze politiche dovrebbero aiutare i cittadini a “selezionare la classe dirigente”, possibilmente utilizzando anche sistemi di scelta diretta come le “primarie”, ma poi – una volta assegnati i seggi – dovrebbero fare un passo indietro. Gli eletti devono rappresentare gli elettori e non il partito. La partitocrazia non è prevista tra i poteri costituzionali. Anche per questa ragione le leggi elettorali con liste di candidati bloccate non hanno senso e sono palesemente in contrasto con lo spirito democratico costituzionale.
Chi è favorevole a leggi elettorali maggioritarie, che attraverso diversi sistemi fanno diventare maggioranza la principale tra le minoranze, presuppone che sia meglio che in Parlamento ci sia una maggioranza omogenea. A parte il fatto che negli ultimi due decenni per vincere le elezioni spesso sono state costruite coalizioni molto disomogenee (che certamente non sono diventate più omogenee grazie al premio di maggioranza), ma per quale ragione rafforzare artificialmente una fazione dovrebbe essere un vantaggio? Al contrario, le altri parti politiche, teoricamente confinate all’opposizione, si sentono escluse a priori dalle decisioni, poiché probabilmente ignorate o poco considerate da chi ha i numeri della maggioranza. I sistemi maggioritari tendono a diventare un impedimento per un confronto parlamentare più collegiale e per una più ampia condivisione delle scelte legislative.
Gli eletti, pur avendo evidentemente un’idea e un programma politico, dovrebbero essere tutti indipendenti, disponibili a votare a favore di ogni proposta di legge in coscienza ritenuta utile e contro ciò che si valuta in modo negativo, dopo un reale confronto parlamentare. Si chiama appunto “parlamento”, poiché si presuppone che tutti siano presenti, che si parli e che si ascolti chi ha qualcosa da dire (all’opposto di quanto accade spesso nel Parlamento italiano con aule vuote e deputati o senatori che parlano ai banchi). Di conseguenza, non dovrebbero esistere maggioranze prestabilite per ogni decisione da assumere, perché è dal dibattito tra gli eletti che dovrebbero affinarsi ed emergere le intenzioni di voto. Il Governo “deve avere la fiducia delle Camere” (art. 95 Costituzione), ma è impensabile e insensato che ogni legge debba essere approvata dalla maggioranza che sostiene l’esecutivo o addirittura direttamente dal Governo. Sta scritto anche nella Costituzione: “il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo non implica obbligo di dimissioni” (art. 94).
La prassi – purtroppo ormai consolidata – che sia il Governo a predisporre e far approvare la maggior parte delle leggi, spesso ponendo il Parlamento sotto il ripetuto ricatto del voto di fiducia, costituisce una grave ferita nel tessuto democratico della divisione dei poteri. È compito del Parlamento approvare le leggi, mentre il Governo dovrebbe occuparsi dello loro piena attuazione (si chiama – appunto – esecutivo). Le eventuali riforme – e a maggior ragione quelle costituzionali – non sono materia governativa, ma parlamentare. Non tocca al Governo cambiare le leggi, magari attraverso l’abuso di Decreti Legislativi.
A parte il fatto che nella Costituzione il Governo è costituito da tre elementi: il Consiglio dei ministri, la Pubblica amministrazione e gli Organi ausiliari. È evidente che per Governo si intende anzitutto l’apparato amministrativo del Paese, che fornisce servizi al cittadino. Spesso è stato sopravvalutato il profilo politico dei Ministri a scapito di quello tecnico, che dovrebbe essere prevalente. I cosiddetti governi tecnici (Ciampi, Dini, Monti) dovrebbero costituire la regola e non l’eccezione. Chi sostiene che i governi tecnici non siano legittimati dal voto democratico, non sa quello che dice. Il popolo italiano non vota mai per il Governo, ma sempre per il Parlamento.
La distinzione netta tra Governo e Parlamento, che rappresentano due poteri distinti, è chiaramente delineata nell’Ordinamento della Repubblica, cioè nella seconda parte della Costituzione. Ma a quanto pare non è così nelle intenzioni delle forze politiche e nelle scelte dei cittadini. Eppure la commistione tra chi approva le leggi e chi governa il Paese dovrebbe preoccupare tutti i sinceri democratici. Montesquieu, considerato tra i padri dei moderni stati democratici, ha scritto: «Se il potere esecutivo fosse affidato a un certo numero di persone tratte dal corpo legislativo, non vi sarebbe più libertà, perché i due poteri sarebbero uniti, le stesse persone avendo talvolta parte, e sempre potendola avere, nell’uno e nell’altro». Parole pesanti che dovrebbero far riflettere anzitutto chi oggi – spesso con grande superficialità – si pone l’obiettivo di riformare le nostre istituzioni, con una nuova legge elettorale e con modifiche costituzionali.