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La beneficenza del Governo e l’equità Costituzionale

La beneficenza del Governo e l’equità Costituzionale

Bergamo, 3 Novembre 2014 | di Rocco Artifoni

La beneficenza del Governo e l’equità Costituzionale

È tornata la beneficenza. Sono tornate le mance e ovviamente chi le riceve è contento: 80 euro al mese ai lavoratori dipendenti fino a 24.000 euro annui dal maggio 2014 e 80 euro mensili anche alle famiglie dei neonati dal 2015 per 3 anni con reddito fino a 30.000 o 90.000 euro (il “tetto” non è chiaro). In Italia c’è un benefattore che dà questi aiuti ad alcuni, facendo crescere l’invidia degli altri (disoccupati, pensionati, famiglie con figli nati nel 2014, ecc.). Ma non si tratta di un filantropo che distribuisce il proprio patrimonio, ma del Governo che utilizza i fondi pubblici, cioè le entrate fiscali, le imposte pagate da tutti. I contributi dati ad alcuni sono ovviamente a carico della fiscalità generale. Di conseguenza, in sostanza saranno le famiglie dei nati nel 2014 a pagare il bonus a quelli del 2015 e saranno i pensionati a pagare il bonus dei lavoratori.

“Se esaminiamo la nostra legislatura, accanto alle normali leggi di imposta ci sono eccezioni, troppe differenze di trattamento tra classi di cittadini ed altri classi, tra varie categorie di contribuenti, lesive del principio di uguaglianza e di solidarietà sociali presenti in questa prima parte di Costituzione. Queste gravi mende della nostra legislazione vanno eliminate con una radicale riforma tributaria”. Queste parole, pronunciate nel 1947 durante i lavori dell’Assemblea Costituente da Salvatore Scoca, relatore sull’art. 53, sembrano scritte oggi. 

Siamo il Paese dove vige una Costituzione che prescrive il dovere inderogabile della solidarietà (art. 2) e la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3). Ma questa solidarietà deve essere equa, basata sulla giustizia e non sulla discriminazione. L’art. 53 della Costituzione fonda il sistema tributario sulla capacità contributiva e sul criterio di progressività. Detto in altre parole: se si vuole sostenere i più deboli, bisogna abbassare le tasse a chi ha di meno, alzandole a chi ha di più. Il che significa operare anzitutto sulle deduzioni e sulle detrazioni fiscali.

Ancora Scoca precisava: “Non si può negare che il cittadino, prima di essere chiamato a corrispondere una quota parte della sua ricchezza allo Stato, per la soddisfazione dei bisogni pubblici, deve soddisfare i bisogni elementari di vita suoi propri e di coloro ai quali, per obbligo morale e giuridico, deve provvedere. Da ciò discende la necessità della esclusione dei redditi minimi dalla imposizione; minimi che lo Stato ha interesse a tenere sufficientemente elevati, per consentire il miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno abbienti, che contribuisce al miglioramento morale e fisico delle stesse e in definitiva anche all’aumento della loro capacità produttiva. Da ciò discende pure che debbono essere tenuti in opportuna considerazione i carichi di famiglia del contribuente.  Sono, questi, aspetti caratteristici di quella capacità contributiva posta a base dell’imposizione”.

Ma proprio chi non ha reddito o ha un reddito minimo, magari frutto di lavori saltuari e/o precari, dall’attuale Governo non riceve nulla. Sono i cosiddetti “incapienti”, che hanno un reddito così basso da essere esentati dal pagamento delle imposte. Anche il Parlamento Europeo il 20 ottobre 2010 ha approvato una “raccomandazione sul reddito minimo”, affinché tutti i cittadini possano avere una vita dignitosa. Proprio queste persone dovrebbero essere considerate la priorità delle scelte fiscali del Governo italiano, che invece elargisce contributi in modo discriminante e perciò ingiustificato.

Non va poi dimenticato che le aliquote fiscali applicate agli scaglioni dei redditi dei contribuenti negli ultimi 40 anni sono diventate sempre meno progressive: gli scaglioni sono stati ridotti da 32 a 5, l’aliquota più alta è scesa dal 72 al 43%, quella più bassa è salita dal 10 al 23%.

Si aggiunge a ciò il fatto che ad alcune tipologie di redditi siano applicate imposte stabilite in modo forfetario o con tassazioni separate proporzionali, che di solito non fanno cumulo con gli altri redditi e di conseguenza eludono la progressività  del sistema tributario.

Inoltre, va considerata l’imposizione sulle rendite finanziarie: è vero che il Governo recentemente l’ha alzata dal 20 al 26%, ma nulla è stato cambiato nella scelta di considerare questo tipo di reddito come separato da ogni altro. E soprattutto rimane il fatto che le imposte sulle rendite sono più basse di quelle sul lavoro.

Ma non è tutto: l’imposta ordinaria sui consumi (IVA) – che è proporzionale – da quando è stata introdotta è salita dal 12 al 22% e anche l’attuale Governo – in mancanza di altre risorse come clausola di salvaguardia nella legge di stabilità – prevede  ulteriori aumenti fino al 25,5%. 

È ancora Salvatore Scoca – Sottosegretario alle Finanze nel Governo De Gasperi – che ci ricorda come le imposte proporzionali siano inique, poiché vengono pagate da tutti allo stesso modo, poveri e ricchi: “se poi consideriamo che più dei tributi diretti rendono i tributi indiretti e questi attuano una progressione a rovescio, in quanto, essendo stabiliti prevalentemente sui consumi gravano maggiormente sulle classi meno abbienti, si vede come in effetti la distribuzione del carico tributario avvenga non già in senso progressivo e neppure proporzionale, ma in senso regressivo che per una Costituzione come la nostra che vuole essere di equità sociale, fiscale e di solidarietà rappresenta una grave ingiustizia a danno delle classi più povere; questa ingiustizia deve essere eliminata in sede di accertamento del reddito globale personale, ciò significa che l’onere tributario complessivo gravante su ciascuno risulti informato al criterio della progressività”.

Un Governo che voglia davvero “cambiare verso” rispetto all’involuzione degli ultimi 40 anni in ambito fiscale dovrebbe diminuire l’imposta sui consumi, differenziare maggiormente le aliquote sui redditi, introdurre il cumulo dei redditi come base dell’imposizione, introdurre la deducibilità di tutte le spese considerate necessarie, aumentare la tassazione per i più abbienti e i contributi ai più poveri. L’attuale Governo ha invece deciso di attuare una beneficenza discrezionale, non dissimile da politiche clientelari già viste, che costituiscono un’aberrazione del sistema tributario e un’evidente ingiustizia sociale, indegna di un Paese civile.